- L'articolo, tratto da Paceco quattro, Litotipografia Abate Paceco, dicembre 2000, pagina 42, racconta la storia di un pacecoto durante la disfatta di Russia.
LUIGI CLEMENTE
VOLEVAMO L’IMPERO, MA… Un soldatino nostro nell’inferno della ritirata di Russia
Noi che non abbiamo vissuto, fortunatamente, nessuna guerra, che generalmente viviamo nel benessere, non mancandoci cibo, capi d’abbigliamento, ogni ben di Dio, ci domandiamo come è possibile che gli uomini possano aver provocato tragedie come la seconda guerra mondiale. Sono passati pochi anni da quella catastrofe eppure quei fatti ci sembrano così lontani.
Siamo incuriositi, rispettosi, interessati, quando ascoltiamo, da chi le ha vissute, storie di quel periodo.

Andrea Candela, agricoltore, nato a Valderice (ma pacecoto d’adozione) il 28 ottobre 1921, adesso quindi quasi ottantenne, ma ancora molto attivo e lucidissimo, si trovò tra le alture e le valli del Dnpr e del Don, a nord del Mar Nero, a girare in lungo ed in largo trasportando col suo camion FIAT soldati (vivi e morti) e armamenti a combattere per… l’impero. E’ tra i non molti favoriti dalla sorte a poter raccontare ai suoi nipoti e a noi ciò che avvenne.
“Che ne pensava di quel conflitto?”, gli domando.
“Eravamo convinti che quella guerra fosse necessaria", spiega. "La mia generazione era educata ad avere il senso della patria: eravamo pronti a immolare la vita per far grande l’Italia.”
Lo invito a narrarmi la sua storia.
“Partii per Trieste, per prestare il servizio militare, nel gennaio del 1941: non avevo ancora vent’anni. Ero abbastanza sereno, anche se mi addolorava lasciare la mia famiglia (mio padre, mia madre e le mie tre sorelle) e la mia terra. Ero autista del 247° autoreparto. Condussi una vita relativamente tranquilla (per quanto tranquilla possa essere la vita di un militare in un paese in guerra!) per circa un anno, prestando il mio servizio. Poi fu dato inizio ai preparativi alla partenza per il fronte russo. Ero preoccupato, conscio di quello che ci attendeva, ma non sfiduciato: avevo ancora la certezza che avremmo vinto.”
“Quale fu il tragitto verso la Russia?”, domando.
“In treno, da Verona ci trasferimmo in Cecoslovacchia (dove attendevano altre divisioni), transitando per Lubiana e Vienna; poi con gli automezzi attraversammo un breve tratto di Polonia e tutta l’Ucraina, passando per Leopoli, Kiev, Poltava, Harkov, giungendo fino a Rostov sul Don. Già in Cecoslovacchia vidi, nella nuda terra, croci con sopra un elmetto: soldati tedeschi. La guerra lì c’era già stata. Quante croci! Le città russe erano distrutte dai bombardamenti. Qualcuno aveva liberato dalle macerie le vie principali per consentire il passaggio dei convogli.“
“Ricorda azioni di guerra?”
“Il compito del mio reparto era di intervenire dove c’era bisogno d’automezzi per trasportare uomini e/o munizioni. Giravo in lungo e in largo tutte le zone di guerra trovandomi spesso sotto i bombardamenti, di fronte ai carri armati, fra le sparatorie.”
“L'equipaggiamento era sufficiente?”
“Eravamo impreparati ad affrontare qualsiasi guerra, figuriamoci una guerra così difficile. Il nostro equipaggiamento non era adeguato ad affrontare la neve ed il fango di quei territori (se toglievamo le scarpe, il cuoio s’induriva a tal punto che non potevamo più rimetterle); le armi erano obsolete, spesso s’inceppavano”.
“Com’erano i rapporti con i tedeschi?”
“Non erano certamente idilliaci: ritenevano, non a torto, di esser costretti a dover fare anche il nostro lavoro. I tedeschi erano preparati per fare la guerra. Erano inesorabili. Setacciavano i paesi e portavano via i russi chissà dove, risparmiando solo vecchi e bambini. Le donne erano spesso seviziate, talvolta anche dagli italiani. Una volta puntai il fucile verso un mio compagno d'armi che si accingeva a compiere quell’atto spregevole. Gli dissi: ‘non ti vergogni, se lo farebbero a tua madre o a tua sorella? Vai via, farabutto’“.
Continua a narrare. Ogni tanto s'interrompe, cercando tra i ricordi.
“Poi i russi ruppero il fronte (il primo a cadere fu il fronte rumeno). Le divisioni italiane rimasero prese in mezzo all’avanzata nemica. I soldati, serrati, cadevamo come mosche nella velleità di aprirsi un varco. A piedi, con gli scarponi logori, laceri, consunti, affamati, i soldati si accasciavano, non volevano più alzarsi, proseguire. Quanti ne rimasero lì, nel fango! I carri armati puntavano minacciosi contro di noi. Era la disfatta. Abbandonavamo viveri, munizioni, automezzi e scappavamo. Io, rispetto agli altri, ero fortunato, avevo il mio camion. Vedevo ufficiali che si strappavano i gradi, per non farsi identificare se fatti prigionieri. Uno di loro ci disse, salendo su un muretto e additando la direzione: ‘è l’Italia, andate’. Eravamo allo sbando.”
“Cos’altro ricorda?”, domando.
“I pidocchi. Di notte, quando faceva freddo, stavano tranquilli, si riposavano; di giorno, quando col movimento il corpo si riscaldava, erano insopportabili, si muovevano, si muovevano in continuazione. Il torace, quanto più era villoso, più ne era pieno. Il mio camion era sempre strapieno di soldati raccolti lungo la via: i miei camerati, disperati, m’imponevano di fermarmi, talvolta minacciandomi con le armi. Bisognava dirigersi verso ovest. Rimasi solo. Mi bloccò una squadra di una quindicina di tedeschi: avevano bisogno del mio camion. Mi presero con loro. Mi rifocillarono (pane nero e grasso, e acqua, mi ricordo perfettamente: com’era buono quel cibo! Ero affamato). Dormii, finalmente (dormivo pochissimo per difendere il mio camion). Quasi ogni notte facevano scorribande in cerca di russi: li prendevano a pedate e pugni. Tentai di medicarne uno col labbro spaccato (avevo sul camion la cassetta medica), un tedesco mi sorprese e mi disse ‘maledetto italiano’ (cominciavo a capire il tedesco!). Un giorno, un carro armato russo puntò verso di noi. Noi italiani avremmo subito cominciato a sparare! I tedeschi invece, imperterriti, stavano in attesa calmi. Fino a quando, scoperto un cannoncino nascosto tra la paglia, fecero fuoco colpendo il carro armato ad un cingolo, rendendolo inutilizzabile. Rimasi sequestrato per circa quindici giorni, poi scappai, col camion ed il cuore in gola (ma come viene il coraggio!), approfittando del caos provocato da un bombardamento aereo“.
Continua a raccontare. Ricordare quelle esperienze fa affiorare sul suo volto segni di sofferenza.
“Avevo bisogno di benzina, il serbatoio era quasi a secco. Mi fermai presso un campo d’aviazione che sembrava abbandonato. Non potevo lasciare il mio camion, sarebbe stata la fine! Da una casupola vidi uscire un fil di fumo: c’era qualcuno. Tedeschi? Compatrioti? Russi? ‘Chi va là?’ M’intimarono. Incredibile! Era uno di Fontanasalsa, un certo Mario Pellegrino, assieme ad altri. Ci abbracciammo. Stavano finendo l’ultimo rancio per poi scappare. È rimasta della benzina, gli domando? ‘Non so, risponde’. Mi misi a girare tra i fusti abbandonati, mentre i russi cercavano roba da mangiare (i nostri avevano abbandonato magazzini interi). Ripartii verso ovest. Quanti morti”, prosegue, “quanti corpi esanimi ho trasportato e seppellito. Un giorno, un prete mi diede in consegna sette cadaveri, ed una lista di nomi. Li sistemai sul camion e partii per trovar loro una degna tumulazione. Arrivato a destinazione, ne scaricai sei. Dov’era finito il settimo? Era rotolato giù dal camion, forse a causa di un sobbalzo su una buca. Ci penso ancora, con senso di colpa! Verso marzo, se non ricordo male, in Moldavia, ci ricongiungemmo al resto delle truppe. Eravamo scampati a quella carneficina? La guerra non era ancora finita. Altri italiani morivano. Ero di sentinella, a Gomel, assieme al mio amico Blaserna, quando i russi ci bombardarono. Ci gettammo nella melma, io da un lato, lui dall’altro. Cessato il fuoco chiamai: ‘Blaserna, dove sei?’. Era privo di vita, trafitto da una scheggia all’addome. Poteva toccare a me! Povero ragazzo! Valicammo nuovamente il Brennero, eravamo in terra italiana”.
“Che pensa della guerra?”, domando.
“La guerra è una cosa mostruosa, chi la vive resta col cuore indurito per ciò che è stato costretto a vedere, a fare. È bene però non cessare di ricordare, per non ripetere gli errori commessi.”
Volevano l’impero…
17 marzo 2000
Luigi Clemente
NOTE
- I ragazzi della Scuola media “Eugenio Pacelli - Pio XII” avevano già incontrato il sig. Candela e da quell’esperienza avevano tratto Memorie di un cittadino di Paceco - Seconda guerra mondiale: campagna di Russia - In mezzo a quella neve c’ero anch’io.
- Nel gennaio del 1941 l’Italia, com’è noto, era già in guerra da circa sei mesi (dal giugno 1940). Nell’ottobre dello stesso anno aveva attaccato la Grecia, partendo da basi albanesi, con esiti a dir poco tragici, tanto che i greci a novembre erano passati alla controffensiva minacciando le forze italiane. Nell’aprile 1941, truppe tedesche e italiane avevano invaso ed occupato la Jugoslavia. Poi i tedeschi ebbero ragione dei greci, in soli quindici giorni (a fronte dei già trascorsi sei mesi delle truppe italiane). Il 22 giugno 1941 le divisioni tedesche cominciarono ad invadere il territorio sovietico. Mussolini dichiarò guerra alla Russia ed inviò sul nuovo fronte un corpo di spedizione italiano; nel dicembre 1941 i reparti avanzati tedeschi giunsero quasi fino a Mosca (le perdite erano però state sensibili). Nel luglio del 1942 i tedeschi aprirono una seconda campagna all’est, puntando verso l’Ucraina meridionale ed il Caucaso, territori ricchi di petrolio, energia elettrica, grano. Si fermarono a Stalingrado (ora Volgogrado), assieme agli italiani, fino al gennaio 1943 (un’armata tedesca fu obbligata da Hitler a resistere fino alla fine).
Ringrazio Andrea Candela e la sua cortese signora per le due ore che abbiamo trascorso insieme
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