L'articolo di Alberto Barbata Sul dorso di un'idea è pubblicato sulla rivista Paceco diciotto - Edizioni La Koinè della Collina - Litotipografia Abate Paceco - gennaio 2014, pag. 8.
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ALBERTO BARBATA
SUL DORSO DI UN'IDEA
Sul dorso di un’idea, così come nel sottotitolo di uno dei più interessanti libri di Virginia Woolf, “Il Lettore comune”, uscito nel 1923, mi sono proposto di entrare nelle stanze di Rocco Fodale, scrittore e uomo di scuola, il cui impegno nella vita letteraria della provincia trapanese è stato continuo e costante nell’ultimo trentennio e oltre. L’idea della Woolf mi stimolava e m’incuriosiva oo diltremodo. La scrittrice inglese, a sua volta, citava una frase dalla “Vita di Gray” del Dr.Johnson che non sfigurerebbe, se fosse iscritta , a mo’ di cartiglio, nelle stanze-biblioteche di famiglia dove la gente si dedica in privato alla lettura: “....mi rallegro di trovarmi d’accordo col lettore comune; dopo tutte le sottigliezze più raffinate e il dogmatismo dell’erudizione, è grazie al buon senso di lettori non corrotti dai pregiudizi letterari che occorre infine dirimere ogni pretesa di onori poetici”.
Parole, diceva Virginia Woolf, che definiscono le doti dei lettori e ne nobilitano il lavoro, in quanto il lettore comune differisce dal critico e dallo studioso. Il lettore comune “è meno colto, e la natura non è stata con lui altrettanto prodiga di talento. Legge per il proprio piacere e non per impartire la sua cultura o per correggere opinioni altrui. Lo guida, in primo luogo l’istinto di voler creare per sé, derivandolo dai vari elementi in cui potrà imbattersi, un qualche quadro d’insieme - il profilo di un uomo, il ritratto di un’epoca, una teoria sull’arte dello scrivere”.
La Woolf quasi lanciava una sfida contro l’establishement della critica ufficiale letteraria del suo tempo e, dopo aver vestito i panni del “lettore comune”, intraprendeva un viaggio all’interno della letteratura inglese.
Il mio viaggio sarà più breve, ma non meno interessante.
Sul finire degli anni quaranta, un drappello di giovani cattolici si riunisce periodicamente nei locali della casa canonica della chiesa madre, dando vita ad un piccolo circolo culturale, intitolato allo scrittore Giosuè Borsi. Il giornalista e poeta livornese, morto giovane sul fronte di guerra nel 1915, era cresciuto in un ambiente carducciano e anticlericale. Dopo aver pubblicato nel 1910 un volume di versi “Scruta obsoleta”, che riecheggiano il classicismo carducciano, e dopo la morte del padre, che con il suo agnosticismo religioso e con il suo anticlericalismo aveva avuto una profonda influenza nella sua formazione, maturò una profonda crisi spirituale che culminò con la conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1914.
Di Giosuè Borsi e della sua vivissima sensibilità, crudelmente turbata dalla guerra, e della sua fede, restano come testimonianza profonda, le sue “confessioni”, pubblicate postume dove risaltano l’abbandono a Dio nella sofferenza e nella rinuncia, e l’attesa della morte.
Le vicende umane e culturali di Giosuè Borsi sono certamente comuni a tante altre vite e a tante altre conversioni “sulla via di Damasco”, se non dovessimo collegarle alla ricerca di un uomo e di uno scrittore, di grande cultura spirituale, profondamente cattolico nell’accezione più vasta del termine. Fodale, infatti, si è formato alla scuola filosofica spiritualista dell’ateneo palermitano, subito dopo le vicende dolorose dell’ultimo conflitto mondiale.
Ma la sua prima formazione, a mio avviso, trae i suoi prodromi, gli inizi e gli indizi dalla scuola del circolo Borsi, in un paese “rosso”, di cultura anticlericale, dove lo scontro tra i due movimenti, il cattolico e il socialista avevano già avuto, nei primi anni del novecento vasta risonanza, a simiglianza di altre regioni italiane, come l’Emilia. D’altronde Paceco, il paese di Rocco Fodale, era stato un crogiuolo di forze rivoluzionarie e nel campo sociale uno dei primi luoghi siciliani dove aveva attecchito fortemente la cultura della cooperazione.
Non bisogna dimenticare che assistente spirituale del piccolo circolo cattolico, i cui componenti avrebbero poi dato vita anche ad un giornale locale d’informazione, era stato un piccolo “pretino”, fresco di studi della pontificia università lateranense, dove si era addottorato in utroque iure.
L’influenza del giovane sacerdote, divenuto poi una delle figure più eminenti della chiesa trapanese, sarebbe stata certamente notevole e soprattutto per la sua cultura rigidamente antimarxista, che non lesinava di ufficializzare anche in conferenze e comizi politici, in un momento drammatico della storia italiana, allorquando la contrapposizione dei due blocchi politici ed ideologici raggiungeva la sua acme, non disgiunta da coloriture locali, che poi avrebbero trovato riscontro nella letteratura nazionale ed in accadimenti particolari, come nello scontro dialettico con lo scrittore socialista Luigi Russo.
La biblioteca di Mons. Manuguerra, certamente, non deficitava di pubblicazioni marxiste e anti, comprese tutte le opere del movimento cattolico di quel tempo, ricche di annotazioni politiche di parte.
L’humus e la temperie culturale in cui cresce il giovane “filosofo” Rocco Fodale è questa, appena descritta, con una differenza fondamentale, quella di una capacità di apertura che altri in quel tempo non ebbero. Presto il Fodale, dopo una breve parentesi d’impegno politico nel massimo partito d’ispirazione cattolica, avrebbe aperto le porte del suo cuore e della sua mente, ad una visione più ampia della società italiana, specie durante l’esperienza magistrale “giovannea”.
L’influenza di Giovanni XXIII fu fondamentale per molti giovani cattolici e le due encicliche promulgate in quel periodo illuminante, la Mater Magistra e la Pacem in Terris, ebbero una risonanza mondiale inaudita per un documento pontificio nell’età moderna. Ma l’azione giovannea servì, soprattutto, alla pacificazione degli animi e alla rivendicazione della natura puramente soprannaturale dell’opera e delle finalità della chiesa nel mondo, al di fuori e al di sopra degli interessi contingenti dei blocchi contrapposti.
Tuttavia Fodale , alcuni anni dopo, nel marzo 1967, avrebbe intrapreso una nuova esperienza politica, quella del Gruppo “J. F. Kennedy”, sorto per sua iniziativa e di alcuni giovani democristiani che “non si rassegnavano ad accettare i mali gravissimi che affliggevano il partito e che ne smorzavano la carica ideale e progressista, la forza morale, la consapevolezza della funzione storica.
Nel programma di apertura, affermavano, sulla scia di quanto già evidenziato da papa Montini, che il male non è solo di chi lo compie ma anche di chi lo lascia compiere.
I giovani del gruppo Kennedy s’impegnavano ad operare in nome della verità, della giustizia , del rispetto della persona umana, accettando tutte le conseguenze che l’impegno richiedeva. S’impegnavano, inoltre, a non cercare prebende, zuccherini, medaglie più o meno auree, consapevoli che la libertà e la dignità della persona non hanno prezzi che le paghi.
Fodale rimase fedele alle sue idee, pur nella disgregazione successiva del Gruppo, ed avrebbe ripercorso il suo credo ideologico e spirituale, nelle vicende umane dei suoi personaggi letterari, a cominciare dal 1972, allorquando trovò la strada maestra della letteratura che gli avrebbe consentito di far conoscere ad un più vasto pubblico le speranze nascoste, il dramma della società provinciale in cui viveva, facendola assurgere a metafora della condizione meridionale, di una Italia del Sud, piena di contraddizioni, di violenze, di segrete viltà, nel progressivo accelerarsi della società italiana, che presto sarebbe stata sconvolta dagli scandali del clientelismo sfrenato e poi corrosa dalla massificazione.
Rocco Fodale, attivo uomo di scuola, già dal 1972, con l’uscita delle Memorie del cavaliere zio Ciàrles, era riuscito con la sua scrittura a fare acquisire al suo paese un valore emblematico, quello del paese meridionale. Dice l’autore, in un’intervista rilasciata a Franco di marco nel 1989: “Il mio paese mi attira, mi ha ispirato, se vogliamo usare questo verbo, ma in senso emblematico. Pian piano andò crescendo in me il disegno di descrivere il paese, che è un mondo anzi un macrocosmo con i suoi personaggi tipici, la sua cultura, i suoi tabù, le sue ingenuità, insomma i suoi aspetti positivi e negativi, guardandolo da angolazioni diverse e disegnandolo in strutture e con forme espressive diverse. Zio Ciàrles rappresenta la chiave umoristica, il paese visto dagli occhi di un mitomane, con le sue avventure strabilianti e mirabolanti”.
Ma nel 1975 la pubblicazione de La bottega di don Mimì avrebbe posto il critico nella condizione di potere operare alcune verifiche e valutazioni, allora utili ed indispensabili, al fine di potere stabilire in che misura e come la cultura si pone in rapporto con la vita, con la società, attraverso la confluenza incrociata dei suoi prodotti. La presenza del libro di Fodale, faceva rilevare Francesco Carbone, si collocava in una precisa dimensione di geografia e topografia culturale. Una dimensione, aggiungeva Carbone, che tuttavia non poteva più rientrare nella consueta nozione o disposizione mentale intesa a classificare la provincia come perimetro di emarginazione sociale, come ristagno o, nei migliori dei casi, come ambito eteronomico e riflesso.
Ma se spogliamo questo atavico concetto di provincia da ogni residuo romantico, che la poneva in uno stato perenne di sospiri e sogni, noi oggi possiamo ben affermare che essa è divenuta nucleo fondante del territorio che nella sua riduttività concettuale realizza e controdesume, pur nella contestualità delle dipendenze politico-amministrative ed economiche, la realtà e la tensione genetica del locale o la struttura elementare del Luogo, capace di autoregolazione, di trasformazione, di totalità.
Cosìcchè La bottega di don Mimì e la contestualità ideologica, politica, sociologica, antropologica di cui il libro si sostanzia e che costituisce ancora oggi un punto di riferimento assai valido, sono un prodotto di letteratura tra i più significativi e necessari emersi dallo spazio e dal tempo di un territorio che nella sua riduttività concettuale contiene una particolare compiutezza di valori, sia umani che sociali. Questi valori Fodale sa sottolineare con sottigliezza meridionalistica, con arguzia di dialogo, con penetrazione riflessiva, con originale umorismo, con vive sequenze evocative.
La bottega, come sottolineava Nicola Lamia, è un’opera più impegnativa e più organica nel contenuto e più armoniosa stesura. La vicenda si svolge negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale, in un paese di contadini disteso su un’ampia collina rocciosa a poche miglia da Trapani, lo stesso dello zio Ciàrles, dal nome fittizio di “Quattro Rocce”, e scena fissa è la bottega di don Mimì, un barbiere-filosofo anziano, affezionato al suo apprendista, Paolino. All’interno di questo salone passa, direttamente o di riflesso, tutta la vita del paese. Una trama esile, senza colpi di scena eccezionali, ma segnata dalla figura di questo singolare ed originalissimo personaggio che conferisce unità al racconto, evitando che si disperda in episodi frammentari e slegati. Ed anche se il racconto finisce tragicamente, con la morte a Cefalonia del giovane apprendista che il barbiere aveva designato come suo erede, la sua lettura è un vero trattato di psicologia, come sosteneva Lamia.
Infatti Rocco Fodale, scrisse Santi Correnti, è un uomo di cultura e di scuola, un filosofo che ha il raro pregio di scrivere in maniera avvincente e non didascalica, da artista autentico e originale. Le pagine finali de La bottega davvero ci riconducono e ci fanno pensare al Verga de I Malavoglia, per quella desolata tristezza che fa apparire rutto, anche la morte, nell’ordine naturale e addirittura banale delle cose.
Non bisogna dimenticare che la scrittura di Fodale ha il pregio, in tempi di avanguardie o di sperimentalismi per addetti ai lavori, come faceva notare Vincenzino Adragna, della immediata comunicatività, tanto nella espressione dialettale (si ricordi l’Accujddatina di matrimoniu) quanto in quella in lingua, e sarebbe giusto qui richiamare l’attenzione dei lettori sui racconti di A chi sa l’arte..., che costruiscono un panorama vivace di una certa pittoresca e non propriamente rara umanità in azione, della quale, con sorriso bonario e maliziosamente ammiccante, Rocco Fodale mette in risalto personaggi ed episodi da non dimenticare, rivissuti o immaginati con aderenza fedele alla realtà, con finissima analisi nella quale anche l’annotazione di un particolare apparentemente trascurabile contribuisce, però, a rendere più efficace l’evocazione od il richiamo. Si tratta di una satira sottile, anche se equilibrata nei toni e nelle impostazioni, che la trattiene rigorosamente dalla malevolenza; tuttavia la scrittura dell’autore tende a focalizzare personaggi, immagini e storie legate alla smania maniacale del potere, cui sono legati alcuni tipi di politici, di cui il Fodale ha conosciuto le anime, nella sua lunga milizia nei partiti popolari del dopoguerra.
Ma certamente la punta più alta della produzione fodaliana, fino al momento attuale, rimane il romanzo Il parroco de cuius, uscito nel 1991, per la tensione morale e sociale che lo anima. Opera scritta in tempi relativamente lontani dai fatti reali, dalle atrocità di cui poi sarebbero rimasti vittime personaggi come don Pino Puglisi o don Giuseppe Diana. La scrittrice milanese Graziella Bernabò sostiene che: “Non si era proposta massicciamente attraverso i mass media l’immagine di quella chiesa siciliana e meridionale che, con silenziosa umiltà ma fermamente, cerca, al di là delle gerarchie, se non in contrasto più o meno forte con esse, di stare dalla parte della gente semplice e offesa dalla prepotenza organizzata”.
Ed infatti è proprio la chiesa del giovane padre Giuseppe, protagonista del romanzo, al centro dell’opera, in un quartiere periferico della città di Trapani. E don Giuseppe, entrato in contatto con una realtà mafiosa e farisaica, vuole fare fino in fondo il proprio lavoro di prete, cioè aiutare chi ha bisogno e aprire la porta a chi è perseguitato, senza badare alle inevitabili ritorsioni.
Scrive ancora Bernabò: “In mezzo a tanta letteratura calligrafica, oppure di mero intrattenimento, il romanzo di Fodale ci offre l’esempio di uno scrivere seriamente impegnato e tuttavia non rigidamente ideologico. L’ispirazione cattolica, pur presente nel libro, non ha nulla di banalmente clericale; fa tutt’uno con un afflato di carità, di amore e di giustizia nel quale qualunque persona di buona volontà si può ritrovare indipendentemente dalla collocazione politica e religiosa. Le immagini fodaliane sono quelle di una sicilianità reale che, attraverso l’azione di molte persone impegnate e oneste che hanno pagato spesso con la vita, sta progressivamente avanzando dal terreno dell’utopia verso una rinnovata dignità che è stata di esempio e di stimolo positivo all’Italia tutta”.
Speriamo che le parole della Bernabò e le sue speranze si traducano sempre più in mutamenti reali della condizione umana e sociale dei siciliani e che non restino soltanto carta stampata, dopo gli innumerevoli sacrifici a cui abbiamo assistito.
Giovanni Salvo faceva notare, a proposito de Il parroco de cuius, l’alta passione di Rocco Fodale per la politica pura, nel senso più elevato, disinteressato e coinvolgente del termine, nel senso di lotta per le idee. Sostiene, infine, il Salvo che questo è il messaggio profondo del romanzo, messaggio tanto più prezioso perché lanciato oggi, quando dappertutto assistiamo alla morte delle ideologie ed alla nascita di un qualunquismo diffuso e generalizzato. E sono passati quasi dieci anni da queste note che oggi si potrebbero ancora di più caricare di appunti e riflessioni.
Ma anche nella penultima fatica letteraria, L’erede, del 1993, il cammino di Rocco Fodale narratore continua, senza soluzioni devianti, “con ritmo che sale da una vocazione che taglia, ogni volta, un traguardo nuovo alla gioia dello spirito creatore”.
Queste sono parole di Giuseppe Cottone, in Narratori Sicani, ma è certamente vero che nell’ultimo romanzo, L’erede, possiamo riconoscere gli elementi fondanti di una scrittura che è pervenuta ad una maturazione letteraria tale da rivelarci un approfondimento notevole del mondo dell’autore, che converge nel protagonista scelto dal mondo della chiesa, il parroco ormai famoso, letteralmente parlando, di Villa Rosina, che vive in una comunità ecclesiale polarizzata al dono della grazia; e, tuttavia, il suo “contenuto religioso” non include il nostro romanzo nella letteratura cosiddetta “cattolica”, la quale, purtroppo, riesce spesso stucchevole e didascalica.
E l’unico scrittore cattolico, sostiene il preside Cottone, che il testo di Fodale richiama alla mente è Bruce Marshall, per la tematica di alcuni suoi romanzi che hanno come protagonisti i sacerdoti, come padre Smith o un padre Malachia, smaliziati all’umorismo ed all’ironia del narratore.
Tuttavia padre Giuseppe, il protagonista, mantiene la sua semplicità ad ogni esperienza esterna, che egli utilizza alla riuscita del suo impegno sacerdotale, perché lui non si è votato al sacerdozio per rinnegare il mondo, ma per farsene strumento all’amore del cristiano verso tutti gli uomini, tra i quali egli privilegia quelli che ancora riescono a fare inumidire gli occhi.
Rocco Fodale, che appartiene quasi alla stessa generazione di Mino Blunda, rimane oggi un militante della cultura, all’interno del territorio del trapanese, quasi un demiurgo alla ricerca di nuove leve, coordinatore di un piccolo drappello di intellettuali attorno ad una rivista, “Paceco”, che ha stimolato molti giovani e meno giovani alla scrittura.
ALBERTO BARBATA